Du doigt, il désignait la hauteur, et au même instant l’attelage s’enlevait à flanc de côte à l’assaut de Sienne, dressée en plein ciel, sur l’échine onduleuse de ses collines. Ils franchirent le mur d’enceinte entre deux louves de pierre, brutales et blanches, qui gardaient l’entrée sur les vantaux du portail. On montait.
Dans la clarté trouble, des maisons apparurent assez distantes les unes des autres, puis se formèrent en murailles, à gauche et à droite, tandis que sous les fers des chevaux sonnaient les dalles de granit qui pavent les vieilles chaussées toscanes. Ce furent de des ruelles sans trottoirs, si étroites entre les bâtisses abruptes que la lune ne les atteignait pas : à la lueur des lanternes luisaient éphémèrement des anneaux de bronze, des torchères, des plaques de marbre : les portails accumulaient de l’ombre sous leurs ogives.
Car ils s’élevaient maintenant en pleine ville, une ville à créneaux et meutrières [sic], une ville du quatorzième siècle, sans une lumière, sans un bruit. Et dans ce décor hallucinant, leur escalade orchestrée de claquements de fouet et apostrophes sonores, détonnait bruyamment, comme une irruption de la Vie en plein sommeil du Passé.
La voiture déboucha sur une esplanade culminante, parcourut un large espace à ciel découvert avant de se rejeter mystérieusement parmi les arbres. Lorsqu’ils stoppèrent, ils avaient atteint l’extrémité d’une colline et contourné un val qui se creusait à gauche comme un entonnoir : l’hôtel occupait ce cap péninsulaire, et juste en face, sur un promontoire avançant, une gigantesque église leur envoyait l’ombre de son campanile à créneaux.
- Chiesa di San Domenico, indiqua le cocher.
E indicò in alto col dito, mentre la carrozza prendeva d’assalto Siena, ritta in pieno cielo sull’ondosa groppa delle sue colline. Superarono la muraglia di cinta tra due lupe di pietra, brutali e bianche, guardanti l’entrata dai pilastri del portale. E su ancora…
Apparvero edifici distanti gli uni dagli altri, nella luce stracca, che si serrarono a sinistra e a destra in vasti muri e sotto i ferri dei cavalli suonarono le lastre di granito che pavimentavano le vecchie città toscane. Stradette senza marciapiedi, così strette fra i cornicioni precipiti che la luna non vi scendeva e alla luce dei lampioni splendori effimeri di anelli di bronzo, di torcieri, di placche di marmo e cumuli d’ombra nei portali sotto le ogive.Ora correvano in piena città, una città a merli e a vedette, una città del Trecento, senza luce, senza rumore, e nell’insieme allucinante quella scalata orchestrata di schiocchi di frusta e di apostrofi sonore assordava romorosamente, simile ad un’irruzione della vita in pieno sonno del passato.
La carrozza sboccò su una spianata culminante, percorse un largo spazio a cielo scoperto prima di ricacciarsi misteriosamente sotto gli alberi. Avevano raggiunto l’estrema punta d’una collina, quando si fermarono, dopo d’aver corso rasente alla valle che si squarciava a sinistra come un imbuto e l’albergo occupava appunto quella testa di penisola e proprio in faccia, avanzata su d’un promontorio, una chiesa gigantesca gittava su di loro l’ombra del suo campanile merlato.
- Chiesa di San Domenico, - insegnò il cocchiere.
Camille Mallarmé (1912), Le Ressac, Paris, Bernard Grasset, 15-16. Trad. it. di Paolo Orano (1914), Come fa l'onda... Romanzo senese, Milano, Fratelli Treves, 13.
Efficace la frase. Voi non lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli. Avevate torto, perché voi siete il Governo e il Governo deve saper tutto. Non sono fatte pel Governo, certamente, le descrizioncelle colorite di cronisti con intenzioni letterarie, che parlano della via Caracciolo, del mare glauco, del cielo di cobalto, delle signore incantevoli e dei vapori violetti del tramonto: tutta questa rettorichetta a base di golfo e di colline fiorite, di cui noi abbiamo già fatto e oggi continuiamo a fare ammenda onorevole, inginocchiati umilmente innanzi alla patria che soffre; tutta questa minuta e facile letteratura frammentaria, serve per quella parte di pubblico che non vuole essere seccata per racconti di miserie. Ma il Governo doveva sapere l’altra parte; il Governo a cui arriva la statistica della mortalità e quella dei delitti; il Governo a cui arrivano a cui arrivano i rapporti dei prefetti, dei questori, degli ispettori di polizia, dei delegati; il Governo a cui arrivano i rapporti dei direttori delle carceri; il Governo che sa tutto: quanta carne si consuma in un giorno e quanto vino si beve in un anno, in un paese; quante femmine disgraziate, diciamo così, vi esistano, e quanto ammoniti siano i loro amanti di cuore, quanti mendichi non possano entrare nelle opere pie e quanto vagabondi dormano in istrada, la notte; quanti nullatenenti e quanti commercianti vi sieno; quanto renda il dazio consumo, quanto la fondiaria, per quanto s’impegni al Monte di Pietà e quanto renda il lotto. Quest’altra parte, questo ventre di Napoli, se non lo conosce il governo, chi lo deve conoscere? E se non servono a dirvi tutto, a che sono buoni tutti questi impiegati alti e bassi, a che questo immenso ingranaggio burocratico che ci costa tanto? E, se non siete la intelligenza suprema del paese che tutto conosce e a tutto provvede, perché siete ministro?
Vi avranno fatto vedere una, due, tre strade dei quartieri bassi e ne avrete avuto orrore. Ma non avete visto tutto; i napoletani istessi che vi conducevano, non conoscono tutti i quartieri bassi. La via dei Mercanti, l’avete percorsa tutta?
Sarà larga quattro metri, tanto che le carrozze non vi possono passare, ed è sinuosa, si torce come un budello: le case altissime la immergono, durante le più belle giornate, in una luce scialba e morta: nel mezzo della via il ruscello è nero, fetido, non si muove, impantanato, è fatto di liscivia e di saponata lurida, di acqua di maccheroni e di acqua di minestra, una miscela fetente che imputridisce. In questa strada dei Mercanti, che è una delle principali del quartiere Porto, v’è di tutto: botteghe oscure, dove si agitano delle ombre, a vendere di tutto, agenzie di pegni, banchi lotto; e ogni tanto un portoncino nero, ogni tanto un angiporto fangoso, ogni tanto un friggitore, da cui esce il fetore dell’olio cattivo, ogni tanto un salumaio, dalla cui bottega esce un puzzo di formaggio che fermenta e di lardo fradicio.
Matilde Serao (1993 [1884]), Il ventre di Napoli, Milano, l'Unità, 3-5.
J’ai quitté Aïn-Séfra l’an dernier aux premiers souffles de l’hiver. Elle était transie de froid et de grands vents glapissants la balayaient, courbant la nudité frêle des arbres. Je la revois aujourd’hui tout autre, redevenue elle-mêmem dans le rayonnement morne de l’été : très saharienne, très somnolente, avec son ksar au pied de la dune en or, aver ses koubba saintes et sed jardins bleuâtres.
C’est bien la petite capitola de l’Oranie désertique, esseulée dans sa vallée de sable, entre l’immensité monotone des Hauts-Plateaux et la founaise du sud.
Elle m’avait semblé morose, sans charme, parce que la magie du soleil ne l’enveloppait pas de l’atmosphère lumineuse qui est tout le luxe des villes d’Afrique. Et maintenant que j’y vis en un petit logis provisoire, je commence à l’aimer. D’ailleurs, je ne la quitterai plus pour un maussade retour vers le Tell banalisé, et cela suffit pour que je la regarde avec d’autres yeux. Quand je partirai, ce ne sera que pour descendre plus loin, pour m’en aller là-bas, vers le grand Sud, où dorment les «hamada» sus l’éternel soleil.
A Alger, j’avais dû mépriser des choses et des gens. Je n’aime pas à mépriser. Je voudrais tout comprendre et tout excuser. Pourquoi faut-il se défendre contre la sottise, quand on n’a rien à lui disputer, quand on n’est pas de la partie ! Je ne sais plus – Ces choses ne m’interessent pas: le soleil me reste et la rout me tente. Ce serait pour un peu toute une philosphie.
Plus près de moi, j’avais eu l’occasion de voir grandir, dans une âme que je croyais plus affranchie, un passion pure et forte, et je disais à mon ami : « Prenez garde, quand on est heureux on ne comprend plus rien aux souffrances des autres...»
Il partit vers le bonheur, du moins le croyat-il, et moi vers ma destinée.
Maintenant je me suis éloignée, et je sens mon âme redevenir plus saine, naïvement ouverte à toutes les joies, à toutes les sensualités délicates des yeux et du rêve.
Avevo lasciato Aïn-Sefra l’anno scorso, ai soffi dell’inverno. Era intirizzita dal freddo e spazzata da forti venti mugolanti che curavano le fragili nudità degli alberi. Oggi la rivedo completamente diversa, ritornata se stessa sotto i cupi raggi estivi: sahariana, sonnolenta, con lo ksar fulvo ai piedi della duna dorata, con le sante koubba e i giardini blu.
È proprio la piccola capitale della regione desertica di Orano, derelitta nella vallata di sabbia, tra la monotona intensità degli altipiani e la fornace del sud.
Mi era sembrata tetra, priva di fascino, perché la magia del sole non l’avvolgeva nell’atmosfera luminosa che è l’unico lusso delle città africane. E adesso che ci vivo, in un piccolo alloggio provvisorio, comincio ad amarla. Del resto non me ne andrò di qui per fare un imbronciato ritorno nell’ormai banale Tell, e questo basta già a farmela vedere con occhi diversi. Quando partirò, lo farò per scendere ancora, per andare laggiù, nel profondo sud dove dormono le hamada sotto l’eterno sole […].
Ad Algeri, ero costretta a provare disprezzo per cose e persone. Non mi piace provare disprezzo, vorrei capire e scusare tutto. Perché bisogna difendersi dalla stupidità, quando non si vuole contendere con lei, quando non ci riguarda? Non lo so più. Sono cose che ormai non m’interessano: mi rimane il sole, e la strada mi ten ta: sarà questa un po’ la mia filosofia. M’era capitato di veder crescere, vicino a me, in un’anima che credevo più aperta, una passione pura e forte, e dicevo al mio amico: «Attento, quando si è felici, non si capiscono più le sofferenze degli altri…»
Lui è andato incontro alla felicità, o almeno così credeva, e io incontro al destino.
Adesso che sono lontana, sento l’anima ridiventare più sana, più ingenuamente disponibile a tutte le gioie, a tutta la sensualità delicata degli occhi e del sogno.
Isabelle Eberhardt (1921), Dans l’ombre chaude de l’Islam, Paris, Libraire Charpentier et Fasquelle, 1-5. Trad. it. di Leonella Prato Caruso (1989), Sette anni nella vita di una donna, Parma, Guanda, 269-27.
Die Landschaft hat sich nicht sehr verändert seit Moskau […]. Die Stationen – Holzgebäude, hölzerne übergänge, gelber Sandboden, Kleine Gärten, und gleich dahinter die weite Ebene, eine breite Landstrasse, Felter, ein paar Bäume am fernen Horizont – was für ein grosses Land.
Manchmal fährt man an Fabriken vorbei, man sieht ihnen an, dass sie neu sind. Es sind Getreidemühlen, und in der Nähe erblickt man die Gebäude einer Kolchose, Große, niedrige Ställe, einen Hof, wo Traktoren stehen, nebenan das alte Dorf.
Auf den Feldern wird die Ernte eingebracht […].Dörfer, die über ein grosses Terrain verstreut sind, ihre niedrigen Hutten haben Strohdächer und weissgetünchte Wände und stehen vereinzelt zwischen Gebüsch und hohem Gras. Draussen, auf hellen Weiden, lagern grosse, helle Rinder.
Il paesaggio non è molto cambiato da quando siamo partiti da Mosca. […] Le stazioni sono costituite da un edificio di legno, passerelle di legno, sabbia gialla, piccoli orti. Subito dietro si stende la pianura bianca, con una larga strada di campagna, dei campi, qualche albero lontano all'orizzonte, un paese immenso. Talvolta passiamo davanti alle fabbriche, si capisce subito che sono nuove. Sono mulini per il grano e, nei pressi, accanto al vecchio villaggio, si vede il complesso di un kolchoz, grandi stalle basse, una corte, i trattori. Sui campi si sta mietendo. […] Ci sono paesi sparsi nel vasto territorio, le loro costruzioni basse sono coperte da tetti di paglia, hanno muri imbiancati, e sono sperdute tra la boscaglia e l'erba alta. Sui prati, pascolano grandi bovini chiari.
Annemarie Schwarzenbach (1995), Auf der Schattenseite: ausgewählte Reportagen, Feuilletons und Fotografien, 1933-1942, Basel, Lenos, 59-60. Trad. it. di Tina D'Agostini (2010), Dalla parte dell'ombra, Milano, Il Saggiatore, 74.
Au sortir de cette région aride, Hojo nous apparut soudain comme nous atteignons le sommet d'un col. La ville entourée de remparts s'élève dans une vaste plaine verdoyante traversée par une jolie rivière. Cette oasis parmi ce pays desséché forme un surprenant et charmant contraste et l'on comprend sans peine l'attachement que témoignent les musulmans du Kansou à cette fraîche citadelle, réplique terrestre, à leur mesure, des jardins fleuris du paradis d’Allah.
Uscendo da questa regione secca, Hezuozhen ci apparve all’improvviso mentre raggiungevamo a cima di un colle. La città cinta da mura si innalzava in una vasta pianura verdeggiante traversata da un bel fiume. Questa oasi, in un paese così arido, dà vita a un sorprendente e affascinante contrasto e si capisce l’attaccamento dei musulmani del Gansu a questa fresca cittadina, replica terrestre dei giardini in fiore del Paradiso di Allah.
Alexandra David-Néel (1999 [1933]), Au pays des brigands-gentilshommes, in Ead., Grand Tibet et vaste Chine: récits et aventures, Paris, Plomb, 35. Trad. it. di Guido Boni (2001), Nel paese dei briganti gentiluomini, Roma, Voland, 35-36.
Roma, cielo della terra, possiede un’Orsa Maggiore con le stesse virtù e gli stessi difetti di quella astrale. La costellazione di Roma è incastrata nel centro della città, delineata, invece che da sette stelle da cinque vie e due piazze. È nobile, ambiziosa ed egoista, riluce largamente, con la coda spazza i quartieri alti, allontana da sé tutte le strade, parla soltanto a Villa Borghese e a Piazza Colonna, i palpiti della città non la commuovono e non la toccano. Ogni mattina fa una lunga toilette. Non conosco i nomi delle sette stelle dell’Orsa celeste. Conosco i nomi delle cinque vie e due piazze che formano quella romana. Via Veneto, Piazza Barberini, Tritone, Due Macelli, Piazza di Spagna, via Condotti, Corso Umberto (da Largo Goldoni a Palazzo Chigi)
Paola Masino (1933), Decadenza della morte, Roma, Stock, 49-50.
Poche cose esistono per me in quest’alba faticosa e bianca di un giorno d’agosto in cui siedo in terra, sulla ghiaia di un vialetto di Boboli, come nei sogni, in camicia da notte. […] Sotto di me, fra i sassolini, i miei piedi nudi e grigi; sopra di me, come le onde su un affogato, il viavai smorto della gente che sale e scende l’erta da cui vengo, e che non può curarsi di una donna accoccolata in singhiozzi. Gente che alle quattro del mattino si spinge come gregge spaurito a mirare lo sfacelo della patria, a confrontare colla vista i terrori di una nottata che le mine tedesche impiegarono, una dopo l’altra, a sconvolgere la crosta della terra. Senza rendermene conto, piango per quello che ciascuno di loro vedrà dal Belvedere, e i miei singhiozzi seguitano a bollire, irragionati, balenandocci, pazze festuche, il ponte Santa Trinita, torrioni dorati, una tazzina a fiori in cui bevevo da piccola.
Anna Banti (1989 [1947]), Artemisia, Milano, Rizzoli, 25.
To me Acapulco is the detoxicating cure for all the evils of the city: ambition, vanity, quest for success in money, the continuous contagious presence of power-driven, obsessed individuals who want to become known, to be in the limelight, noticed, as if life among millions gave you a desperate illness, a need of rising above the crowd, being noticed, existing individually, singled out from a mass of ants and sheep. It has something to do with the presence of millions of anonymous faces, anonymous people, and the desperate ways of achieving distinction.
Here, all this is nonsense. You exist by your smile and your presence. You exist for your joys and your relaxations. You exist in nature. You are part of the glittering sea, and part of the luscious, well-nourished plants, you are wedded to the sun, you are immersed in timelessness, only the present counts, and from the present you extract all the essences which can nourish the senses, and so the nerves are still, the mind is quiet, the nights are lullabies, the days are like gentle ovens in which infinitely wise sculptor's hands re-form the lost contours, the lost sensations of the body. The body comes to life. Quests, pursuits of concrete securities of one kind or another lose all their importance.
As you swim, you are washed of all the excrescences of so-called civilization, which includes the incapacity to be happy under any circumstances […].
From Yucatán through the Isthmus of Tehuantepec toward the Pacific Ocean. How strange it was to drive through the jungle, on our way to Tehuantepec, knowing that for six hours there would be no villages, no gasoline, no water. The top was down. We could see the trees with their tops interlacing, the ferns, the same parasitic lianas hanging from them like tattered lace. The air was tinted green from so much foliage, the sun could not penetrate except in shafts now and then. The smells were pungent, like a mass of odorous herbs pressed together, damp, exhaling strong vapors. Now and then we met two or three men on horseback, in white suits and immense hats, carrying their machetes like swords […]. But the arrival at Tehuantepec was like entering a Gauguin world. Flowers, vines, rivers, and in the shallow rivers, nude women bathing. Women and children. We would have liked pictures of them but knew their hostility to photography. We went to the hotel, the usual rambling house with a patio, tile floors, and I had to beg for a room because I was exhausted by the six-hour drive.
Per me Acapulco è la cura disintossicante per tutti i mali della città: ambizione, vanità, ricerca del successo sotto forma di denaro, la continua presenza contagiosa di gente orientata verso il potere, di individui ossessionati dal desiderio di diventare famosi, che vogliono essere sotto la luce del riflettore, come se la vita in mezzo a milioni di persone producesse una malattia disperata, un bisogno di sollevarsi al di sopra della folla, di essere notati, di esistere individualmente, isolati da una massa di formiche e di pecore. Ha qualcosa a che vedere con la presenza di milioni di facce anonime, di gente anonima, e col modo disperato di raggiungere una differenziazione.
Qui, tutto questo è un nonsenso. Si esiste per il proprio sorriso e la propria presenza. Si esiste per la propria rilassatezza. Si esiste nella natura. si è parte del mare luccicante, e parte delle piante dolci, ben nutrite, ci si sposa col sole, immersi in un tempo senza tempo, conta solo il presente e dal presente si estraggono tutte le essenze che possono nutrire i sensi, così i nervi sono immobili, la mente è tranquilla, le notti sono ninne nanne, i giorni sono come forni gentili in cui la mano infinitamente saggia di uno scultore riplasma i contorni perduti, le sensazioni perdute del corpo. Il corpo nasce a nuova vita. Ogni ricerca affannosa di sicurezze concrete di qualsiasi genere perde tutta la sua importanza.
Nuotando si viene lavati di tutte le escrescenze della cosiddetta civilizzazione, che include l’incapacità di essere felici in qualsiasi circostanza […].
Dallo Yucatán attraverso l’istmo di Tehuantepec verso l’Oceano Pacifico. Com’era strano guidare attraverso la giungla, diretti a Tehuantepec, sapendo che per sei ore non ci sarebbero stati villaggi, né benzina, né acqua. La capote era abbassata e potevamo vedere gli alberi con le loro cime intrecciate, le felci, le stesse liane parassitarie che pendevano come pizzi stracciati. L’aria era tinta di verde da tanto fogliame, il sole non riusciva e penetrarvi se non qualche raggio di quando in quando. Gli odori erano pungenti, come una massa di erbe odorose pressate insieme, umida, che esala forti vapori. Ogni tanto incontravamo due o tre uomini, con camicie bianche e cappelli immensi, che portavano i machete come spade […]. Ma l’arrivo a Tehuantepec fu come l’entrata in u mondo di Gauguin. Fiori, rampicanti, fiumi, e nei fiumi con l’acqua bassa donne nude che facevano il bagno. Donne e bambini. Ci sarebbe piaciuto fotografarli ma conoscevamo la oro ostilità per la fotografia. Andammo in albergo. La solita costruzione irregolare con un patio, i pavimenti di mattonelle, e dovetti implorarli per una stanza perché ero sfinita dalle sei ore di viaggio.
Anaïs Nin (1966), The Diary of Anaïs Nin: 1947-1955, New York, Swallow Press, 73-74. Trad. it. di Delfina Vezzoli (1980), Il Diario, Vol. V, Milano, Bompiani, 151-153.
Gettata aerea di tregua inattesa,
in bilico,
fra due rive contrarie.
Perplessità di una sosta sospesa
Sulla via del mare.
E schiuma e onda
In avventura salata,
ridanno gusto alla vita,
che così è ricordata.
Letizia Fortini (1970), Ponte Santa Trinita, in Ead., Pena la vita, Milano, All’insegna del pesce d’oro, Milano, 14.
A Firenze, a un cavallo da piazza, non potevano fare attraversare il ponte Santa Trinita. Giunto a metà, voleva saltare la spalletta e buttarsi di sotto, con la carrozza e tutto. Il vetturino diceva: «Buono, Lillo, buono»; e tentava di trascinarlo per la cavezza. Macché. S’impuntava; schiumava; impazziva. E soltanto su quel ponte. Nessuno sapeva spiegarsi la cosa. Non c’era nulla ricordare. Tutto accadde dall’oggi al domani. Ombroso, non era mai stato mai.
Che avrà visto, a metà dell’arcata del ponte? Quale ricordo, quale spettro sarà insorto a bloccarlo? Quale percezione d’un ostacolo incombente e terrificante? Che nessuno potesse capacitarsi, vedere, capire insieme con lui, e lo lasciasse lì, senza alcun possibile soccorso di fronte al proprio incomunicabile terrore, questo apriva una voragine di solitudine nella quale si dibatteva col peso de’ suoi molti anni e magari di quelli precedenti la sua vita stessa. “Il tempo è un sogno”, specie per un cavallo.
Che furioso balzo del sangue, allora; che vita aberrata. Tutte le possibile scintille d’uno zoccolo furibondo, avranno empito l’universo, capovolgendo, turbinando. Inutile qualsiasi tentativo d’aiuto. Tranne che voltarsi e tornare indietro.
D’acchito calmo, rassegnato, riprendeva il passo o il trotto. Ma quali fantasmi, dunque, lo impaurivano fino a quel punto? Di dove, da che parte lo assalivano. Imprevedibile un agguato in quell’aperta ondulazione di colline, con l’Arno che scorreva placido, lì sotto, verde e argento. Chi sa. Da anni ci passava; e una volta gli sarà accaduto di battere lo zoccolo in un punto, di certo fino ad allora nemmeno sfiorato. E ne vien fuori un suono differente, a dir poco bizzarro. Eppure al cavallo par di riconoscerlo. Rimane in ascolto. Una zampa sollevata, orecchi dritti, froge aperte. Quel suono, mai provocato fino ad allora,a, risposto chi sa da quanto, esplode, vendicativo. S’alza. Gli fa capire, finalmente. Un tutto che è meglio la morte. E Lillo vuol saltare la spalletta.
Gianna Manzini (1971), Ritratto in piedi, Milano, Mondadori, 13-14.
La luce che in alto attraversa le foglie
si tinge di verde non riesce a bagnare
il sentiero affogato in questa gola
ed è già notte.
Cadono ombre sul sonno degli etruschi
il muschio afferra ogni forma e la sfigura.
S’apre un’ accesso il vento
sibila come il grido di chi è caduto
in baratri di tempo
il mistero è un muro d’acqua che cancella
cadendo a valle, ogni misura d’uomo
e non mi resta che computare gli anni
negli strati verdeazzurri dell’argilla.
Tra queste spoglie
mi ricongiungo a un flusso
che ha preceduto e seguirà il mio tempo:
storia cui appartengo
col mio urlo di vento
imprigionato in gola.
Matilde Jonas (1987), Sovana, in Ead., Tra silenzio e parole, Firenze, Nardini-Centro Internazionale del Libro, 44.
Stoccolma
ci sembrava un paradiso
tutta sospesa
tra il cielo e l'acqua
Una pioggia veloce
poi subito le nuvole
divennero leggere
sottilissime
quasi di cristallo
Non era il cielo
dei Fiamminghi
ma un azzurro fatato
trasparente
e la luce radente
del tramonto
rendeva
tutto perfetto
Marina Torossi Tevini (1987), Atmosfera iperborea, in Ead., L'unicorno, Pasian di Prato, Campanotto, 39.
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Now and then, especially after his mother died, he’d think about the past in New Orleans, which seemed ever more otherworldly and fantastical […] Back home, he had left a city of bigots perhaps, but it was also a city of characters. He could hear the old Irish Channel storytellers in his head […].
Even some of the nuns had had fabulous stories to tell—old ones like Sister Bridget Marie who had substituted for two weeks when Michael was in the eighth grade, a really sweet little sister who still had an Irish brogue. She didn’t teach them a thing. She just told them tales about the Irish Ghost of Petticoat Loose, and witches—witches, can you believe it!—in the Garden District […].
It would come back to him in the oddest flashes. He’d remember the smell of the linen napkins when his grandmother ironed them before putting them in the deep drawers of the walnut sideboard. He’d remember the taste of crab gumbo with crackers and beer; the scary sound of the drums at the Mardi Gras parades. He’d see the ice man rushing up the back steps, the giant block of ice on his padded shoulder. And over and over those marvelous voices, which had seemed so coarse then, but seemed now to be possessed of a rich vocabulary, a flare for the dramatic phrase, a sheer love of language.
Tales of great fires, and the famous streetcar labor riots, and the cotton loaders who had screwed the bales into the holds of the ships with giant iron screws, singing as they worked, in the days before the cotton compressors.
It seemed a great world in retrospect.
Ogni tanto, soprattutto dopo la morte della madre, pensava al passato e a New Orleans, che gli sembrava sempre più fantastica e ultraterrena. A New Orleans aveva lasciato una città di bigotti, forse, ma anche una città di personaggi autentici. Gli sembrava ancora di sentire i racconti dei vecchi dell’Irish Channel. […] Anche certe suore avevano da raccontare storie favolose, come suor Bridget Marie che aveva fatto la supplente per due settimane quando Michael era alle medie, una suorina molto dolce che aveva ancora l’accento irlandese. Non aveva insegnato niente di niente: aveva parlato soltanto del Fantasma irlandese di Petticoat Loose e delle streghe che vivevano del Garden District… nel Garden District, figurarsi! [...]
Gli tornavano in mente a sprazzi. Rammentava l’odore dei tovaglioli di lino che stirava sua nonna, prima di riporli nei grandi cassetti della credenza di noce. Rammentava il sapore della zuppa di granchi coi crostini e la birra, il suono ossessivo dei tamburi nelle parate del Martedì Grasso. Rivedeva l’uomo del ghiaccio che saliva di fredda i gradini dell’ingresso posteriore, con la grande stecca di ghiaccio in bilico sulla spalla imbottita. E sentiva quelle voci meravigliose che allora gli erano parse tanto volgari, ma adesso sembravano possedere un vocabolario ricchissimo, un gusto per la frase drammatica, un amore sincero per il linguaggio.
In retrospettiva sembrava un mondo fantastico.
Anne Rice (1990), The Witching Hour, Ny, Knopf, 56-57. Trad. it. di Roberta Rambelli (1995), L'ora delle streghe, Milano, Salani, 65-66.
qui con me questa sera
di un rosa carminio sulle case
che appena traspaiono per la rete
delle rose e del gelsomino
sul mio terrazzo, coi lampioni accesi
sulle strade e sui campanili
che menano a Fiesole, e su una Firenze,
Aldo, che sembra ancora quella Firenze
che tu ricordi e che io
ricordo, e che non esiste più.
Helle Busacca (1997), Firenze perduta, in Ead., Ottovolante. Poesie (1940-1995), a cura di Idolina Landolfi, Firenze, Franco Cesati Editore, 90.
The streets of Tehran and other Iranian cities are patrolled by militia, who ride in white Toyota patrols, four gun-carrying men and women, sometimes followed by a minibus. They are called the Blood of God. They patrol the streets to make sure that women like Sanaz wear their veils properly, do not wear makeup, do not walk in public with men who are not their fathers, brothers or husbands. She will pass slogans on the walls, quotations from Khomeini and a group called the Party of God: MEN WHO WEAR TIES ARE U.S. LACKEYS. VEILING IS A WOMAN’S PROTECTION.Beside the slogan is a charcoal drawing of a woman: her face is featureless and framed by a dark chador. MY SISTER, GUARD YOUR VEIL. MY BROTHER, GUARD YOUR EYES.
Le strade di Teheran e delle altre città iraniane sono pattugliate da miliziani armati, drappelli di quattro uomini e donne, su fuoristrada Toyota bianchi, a volte seguiti da un minibus. Li chiamano il Sangue di Dio. Loro compito è quello di accertarsi che donne come Sanaz si vestano in maniera consona, non si trucchino, non si mostrino in pubblico in compagnia di uomini che non siano i rispettivi padri, fratelli o mariti. Sanaz passerà sicuramente davanti a muri ricoperti di scritte, citazioni da Khomeini o dal Partito di Dio: CHI PORTA LA CRAVATTA È UN LACCHÈ DEGLI STATI UNITI. IL VELO PROTEGGE LA DONNA. Accanto, lo schizzo a carboncino di una figura femminile, un volto privo di lineamenti incorniciato da uno chador scuro: SORELLA, BADA AL TUO VELO. FRATELLO, ATTENTO A DOVE GUARDI. Se decide di prendere l’autobus, Sanaz non può sedersi dove vuole. Deve salire dalla porta posteriore e mettersi nelle ultime file, quelle destinate alle donne.
Azar Nafisi (2003), Reading Lolita in Teheran, NY, Random House 2004, 40. Trad. it. di Roberto Serrai (2004), Leggere lolita a Teheran, Milano, Adelphi, 43.
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Mi colpirono, di Minster Lovell, dapprincipio le ombre – probabilmente perché riconoscevo in loro quel che di me restava- sparse e ordinate e tuttavia predominanti sul candore ostentato da ogni particolare del villaggio. Pensai anche che la vera natura di Minster Lovell fosse racchiusa in quelle ombre- e qui mi compiaccio della maestria della mia mente- nel loro essere innocue e trascurabili, giungendo a terra come vesti destinate a svanire temporaneamente per ripresentarsi identiche, ma in verità misteriose e sinistre, cariche di buio e perciò dimenticabili. Mesi prima nel pensare a Minster Lovell- questo in seguito alla visione di alcune fotografie che ne ritraevano le zone più romantiche- la mia immaginazione aveva costruito spazi fiabeschi offuscati dall’incanto, dove, spostandomi sul dorso di un cavallo, gioivo dell’armonia che mi attorniava in una sorta di esaltazione dei sensi. La mente, diabolico strumento in balia del nulla, aveva determinato posticipatamente la mia caduta nel disinganno e, una volta varcata la soglia di ciò che avevo come presagito rincuorante, mi aveva rivelato il volto impietoso della realtà. Non che fossi amareggiato, non del tutto, giacché era sì delizioso il villaggio, tuttavia non all’altezza del sogno. Ah, i sogni! Miraggi atroci, custoditi dalla placenta della disfatta!
Isabella Santacroce (2012), Amorino, Milano, Bompiani, 12-13
All’ombra blu del parasole,
il pittore e la modella,
le tre donne alla fontana,
le danzatrici a lume di candela,
l’indovina,
la bagnante bionda e Lise
si danno appuntamento
per farsi leggere la mano.
In un bagno turco di Londra,
come in un noir alla Malik o alla Cassavetes,
l’adolescente che ha attraversato la città di notte,
il turista americano derubato durante un finto servizio
fotografico e la giovane cameriera di fast food
si incrociano,
lei ha la luna storta e piange
al suono di un carillon,
poi prende un taxi
per tornare a casa
da una notte troppo lunga,
la dj mette sul piatto il vecchio vinile di un giugno,
lui esce sotto la luna piena,
alla ricerca della ex,
musicista,
e la ragazza croata con l’iguana
racconta che si sposerà,
a Vineta,sotto la neve,
le ha detto l’indovina,
guardando i fondi di caffé.
Laura Fusco (2015), All'ombra blu del parasole, in Ead., La pesatrice di perle, prefazione Itala Vivan, nota critica Maurizio Cucchi, seconda ristampa, Ferrara, Kolibris, 29-30.
For the first four years of my life, I grew up among a large extended family of uncles and aunts in Ryanggang Province. […] Ryanggang Province is the highest part of Korea. The mountains in summer are spectacular. Winters are snowy and extremely cold. […] When I was growing up Hyesan was an exciting place to be. Not because it was lively – nowhere in the country was noted for its theatre scene, restaurants or fashionable subcultures. The city’s appeal lay in the proximity to the narrow Yalu River, Korea’s ancient border with China. In a closed country like North Korea, Hyesan seemed like a city at the edge of the world. To the citizens who lived there it was a portal through which all manner of marvellous foreign-made goods – legal, illegal and highly illegal – entered the country. […] The grown-ups would tell me that we were fortunate to live there. It was the best place in the country after Pyongyang, they said.
Durante i primi anni della mia vita ho vissuto con una grande famiglia, estesa anche a zii e zie, nella provincia di Ryanggang. […] La provincia di Ryanggang rappresenta la parte più elevata della Corea del Nord. D’estate le montagne sono spettacolari. Gli inverni sono nevosi ed estremamente freddi. […] Negli anni della mia infanzia Hyesan era un posto entusiasmante dove vivere: non per la sua vivacità – non c’è nessun posto in Corea del Nord che si possa dire famoso per la sua scena teatrale, per i suoi ristoranti o per le sue culture suburbane di tendenza. Il fascino della città consiste nella sua prossimità con lo stretto fiume Yalu, l’antico confine tra la Corea e la Cina. In un paese chiuso come la Corea del Nord, Hyesan sembrava una città al margine del mondo. Per i suoi cittadini rappresentava un portale attraverso il quale entravano tutti i tipi di prodotti – legali, illegali e altamente illegali. […] Gli adulti mi dicevano che eravamo fortunati a vivere lì. Era il posto migliore dopo Pyongyang, dicevano.
Lee Hyeonseo (2015), The Girl with Seven Names, London, William Collins, 11-12, tr. it. inedita di Clara Pastore.
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Nelle terre a sud di Siena, un paesaggio collinare dall’ampio orizzonte con cui Teresa si sentiva in sintonia, s’imbatterono in un casolare malandato, Lupaia, su un’altura da cui si vedevano tre poderi in lontananza; uno era abbandonato, in uno viveva una coppia di vecchi contadini e in un altro dei pastori tenevano le pecore. […] Il casolare piacque a Teresa anche per quel nome, Lupaia, che evocava branchi di lupi che in tempi remoti avevano vagato in quello che nelle mappe medievali veniva indicato come il deserto di Accona. In effetti, di notte echeggiavano dei sinistri ululati che sembravano scaturire dal profondo delle tenebre. […] Quando la coppia vi approdò, la campagna di Lupaia aveva già cominciato a spopolarsi. I mezzadri lasciavano la terra perché, arida e argillosa, non rendeva se non a prezzo di una fatica immane, e si trasferivano nei paesi per andare a lavorare nelle piccole fabbriche che vi stavano sorgendo. Lupaia, su un poggio esposto ai venti, si trovò così isolata in messo a una distesa di campi non più arati, inframezzati da antichi oliveti, qualche vecchio vigneto e fitti boschi dove scorrazzavano cinghiali e caprioli e svolazzavano upupe.
Anna Luisa Pignatelli (2019), Foschia, Roma, Fazi, 15-17. |