It is a big, airy room, the whole floor nearly, with windows that look all ways, and air and sunshine galore. It was nursery first and then playroom and gymnasium, I should judge; for the windows are barred for little children, and there are rings and things in the walls.
The paint and paper look as if a boys' school had used it. It is stripped off-the paper-in great patches all around the head of my bed, about as far as I can reach, and in a great place on the other side of the room low down. I never saw a worse paper in my life.
One of those sprawling flamboyant patterns committing every artistic sin. It is dull enough to confuse the eye in following, pronounced enough to constantly irritate and provoke study, and when you follow the lame uncertain curves for a little distance they suddenly commit suicide-plunge off at outrageous angles, destroy themselves in unheard of contradictions.
The color is repellant, almost revolting; a smouldering unclean yellow, strangely faded by the slow-turning sunlight.
It is a dull yet lurid orange in some places, a sickly sulphur tint in others.
No wonder the children hated it! I should hate it myself if I had to live in this room long.
È una stanza grande, soleggiata, che occupa quasi interamente il piano, con finestre da ogni lato, aria e luce a volontà. Prima è stata una stanza per i bambini e poi la stanza per il gioco e l’attività fisica, mi par di capire; perché alle finestre ci sono le sbarre per i bambini piccoli, e poi ci sono anelli e altre cose alle pareti.
L’intonaco e la tappezzeria fanno pensare che la stanza sia stata usata da un’intera classe maschile. È strappata via – la carta – a gran pezzi tutt’intorno alla testata del letto, fin dove posso arrivare, e in un altro punto vicino al pavimento dall’altra parte della stanza. Non ho mai visto una tappezzeria peggiore in vita mia. Uno di quei disegni scombinati e sgargianti che offendono il giusto.
È così noioso che se l’occhio cerca di andargli dietro si confonde, così chiassoso da sollecitare di continuo l’attenzione, ma quando ti metti a seguire un po’ le curve incerte ed esitanti improvvisamente queste si suicidano – si gettano a capofitto in angoli esagerati, si distruggono in contrasti assurdi.
Il colore è ripugnante, quasi disgustoso; un giallo sporco e opaco, scolorito qua e là dal sole nel suo lento girare. In alcuni punti un arancione sbiadito ma sgargiante, in altri una tinta sulfurea e malsana.
Di sicuro i bambini dovevano odiarla! La odierei anch’io se dovessi abitare a lungo in questa stanza.
Charlotte Perkins Gilman (2009 [1892]), The Yellow Wall-Paper, Herland, and Selected Writings, Edited with and Introduction and Notes by Denise D. Knight, London, Penguin, 168. Trad. it. di Bibi Tommasi (1976),La carta da parati gialla, Milano, La Tartaruga, Milano, 11-12.
Und seit einigen Tagen beginnt meine Krone zu zittern, ich fühle ein leichtes Brennen auf der Stirn, und meine Augen sind halb geschlossen. Ich bin grenzenlos traurig, es ist, als ob sie mich überschütte, die Traurigkeit, wie dumpfes Nebelweinen eine Stadt. Meine dunkelhäutigen Sklavinnen standen wie schwarze Marmorsäulen um mich, und immer verharrte die Liebe vor meiner Seele, wie vor einem Tempel. Um mich zu belustigen, feiert der Khedive Freudenfeste ... Dudelsackpfeifer und Flötenspieler machen helle, grüne Musik. Gaukler mit zerzausten Flachsperücken springen katzenbehende über schmale Stufen, klettern auf schwankende Bambusrohre und schwingen sich über die Bogengelände des Palastes. Der Weinschenk und die Speiseträger tragen Krokodilmasken, und Spaßmacher mit buntgeschminkten Händen und Füßen drehen Kreise mit ihren wilden, weiten, schellenbehangenen Röcken. Aber meine Augen sind halb geschlossen, und die harten roten Steine meiner Krone zerfließen – und meine schlanken Sklavinnen biegen sich wie Pinienstämme und lauschen heimlich dem Fieber meines tausendjährigen Herzens. Und wenn du wieder hier in der Heimat bist, Senna Pascha, so wirst du auf der Stirne der großen Pyramide in Hieroglyphen meinen Namen lesen.
Senna Pascha – – – ich sitze auf dem Rosenbeet hinter den silbernen Dachfirnen des Palastes und blicke hinüber – – über einen Wald von Pharaonenbäumen ... – – unter der großen leuchtenden Kuppel lag der Harem, und ich starre auf das Fenster meines verlassenen Gemachs mit seinen blauen Wänden. Neben der stolzen, leuchtenden Kuppel erhebt sich die schwere Fahne des Botschafters wie eine fremde, abwehrende Hand. Ich bin endlos traurig – – es ist, als ob ich ersticke unter der Traurigkeit wie unter einer Wüste von Sandtropfen. Ich habe nie eine Prinzessin oder einen Prinzen so geliebt wie mein blaues Gemach. Wie eine Mutter hat mich sein wiegender, blauer Arm umschlungen, und tiefere blaue Augen hat nie ein König des Abend gehabt wie mein hehres, blaues Gemach. Ein blauer Schwan war es, auf dem ich geleitete – – eine Wunderblume war mein süßes blaues Gemach – – hei, eine Tänzerin ... immer in seidenen blauen Schritten ... zauberleise ... und mit der Sonne hat es hellen Schattenschein getanzt und blaue Träume um die Sterne geschlungen, und hast du schon einmal ein Gemach gesehen, das blaue Haare hatte, Senna Pascha? Oh, ein Kuss war mein blaues Gemach und ich sterbe an diesem blauen, blauen Kuss. Und meine scheuen Sklavinnen umfassen sich im Schlaf – – ich singe Lieder aus tödlichen Tönen. Alle Sterne bedecken mein Gesicht.
O du mein blauer Rauschegarten,
O du meine verlorene blaue Nacht ...
Beim großen Propheten, Senna Pascha, halte mein Geheimnis in deinem Herzen.
È da qualche giorno che la mia corona ha iniziato a tremare, sento ardere leggermente la fronte e i miei occhi sono socchiusi. Sono sconfinatamente triste, sento la tristezza che mi sommerge, come il sordo piangere della nebbia una città. Le mie schiave dalla pelle scura stavano intorno a me come nere colon- ne di marmo e l’amore da sempre attendeva davanti alla mia anima come davanti a un tempio. Per rallegrarmi il kedivè celebra feste di gioia... Suonatori di zampogne e di flauti fanno musica verde e chiara. Saltimbanchi con parrucche di lino arruffate saltano con balzi felini sopra a stretti gradini, si arrampicano su ondivaghe canne di bambù e si dondolano sopra al paesaggio arcuato del palazzo. Vestono maschere da coccodrillo i camerieri che mescono il vino, e quelli che portano il cibo, e i giullari con ampie vesti selvagge, cariche di sonagli, tracciano cerchi, hanno mani e piedi colorati di trucco. Ma i miei occhi sono socchiusi E le pietre rosse e dure si sciolgono nella mia corona – e le mie schiave sottili si piegano come tronchi nella pineta per ascoltare, in segreto, la febbre del mio cuore millenario. E quando tu sarai di nuovo qui in patria, Senna Pascià, allora vedrai il mio nome scritto in geroglifici in capo alla grande piramide.
Senna Pascià – – – sono seduta sull’aiuola di rose dietro le falde d’argento del palazzo e guardo dall’altra parte – – al di là della foresta di alberi imperiali... – – sotto la grande cupola scintillante c’era il gineceo, e io fisso la finestra della mia stanza con le mura blu, abbandonata. Accanto alla cupola, scintillante e superba, la pesante bandiera dell’ambasciatore si erge come fosse una mano estranea e scostante. Sono sconfinatamente triste – sento la tristezza che mi soffoca, come un deserto di gocce di sabbia. Non ho mai amato una principessa o un principe quanto la mia stanza blu. Come una madre, il suo braccio blu mi ha cullata e abbracciata, e nessun re d’oriente ha mai avuto occhi di un blu più profondo della mia gentile stanza blu. Era un cigno blu su cui scivolavo – – era Bella di notte la mia dolce stanza blu – – si, una danzatrice... sempre con passi di seta blu... con magico silenzio e ha ballato con il sole in chiara luce d’ombra, e intorno alle stelle ha avvolto sogni blu, e hai mai visto una stanza con i capelli blu, Senna Pascià? Oh, un bacio era la mia stanza blu e io muoio di questo bacio due volte blu. E le mie timide schiave si abbracciano nel sonno – – io canto canzoni dal suono mortale. Le stelle tutte mi coprono il viso ...... – – –
O tu, mio giardino d’ebbrezza, blu,
O tu, mia perduta notte blu...
In nome del grande profeta, Senna Pascià, mantieni nel tuo cuore il mio segreto................................
Else Lasker-Schüler (1962 [1907]) Die Nächte der Tino von Bagdad (1907), in Ead., Prosa und Schauspiele, München, Kösel-Verlag, 61-63. Trad. it. di Eloisa Perrone (2013), Le notti di Tino di Baghdad, Milano-Udine, Mimesis, 45-47-
Thinking no harm, for the family would not come, never again, some said, and the house would be sold at Michaelmas perhaps, Mrs. McNab stooped and picked a bunch of flowers to take home with her. She laid them on the table while she dusted. She was fond of flowers. It was a pity to let them waste. Suppose the house were sold (she stood arms akimbo in front of the looking-glass) it would want seeing to- it would. There it had stood all these years without a soul in it. The books and things were mouldy, for, what with the war and help being hard to get, the house had not been cleaned as she could have wished. It was beyond one person's strength to get it straight now. She was too old. Her legs pained her. All those books needed to be laid out on the grass in the sun; there was plaster fallen in the hall; the rain-pipe had blocked over the study window and let the water in; the carpet was ruined quite. But people should come themselves; they should have sent somebody down to see. For there were clothes in the cupboards; they had left clothes in all the bedrooms. What was she to do with them? They had the moth in them – Mrs. Ramsay's things. Poor lady! She would never want them again. She was dead, they said; years ago, in London […].
The house was left; the house was deserted. It was left like a shell on a sandhill to fill with dry salt grains now that life had left it. The long night seemed to have set in; the trifling airs, nibbling, the clammy breaths, fumbling, seemed to have triumphed. The saucepan had rusted and the mat decayed. Toads had nosed their way in. Idly, aimlessly, the swaying shawl swung to and fro. A thistle thrust itself
between the tiles in the larder. The swallows nested in the drawingroom; the floor was strewn with straw; the plaster fell in shovelfuls; rafters were laid bare; rats carried off this and that to gnaw behind the wainscots. Tortoise-shell butterflies burst from the chrysalis and pattered their life out on the window-pane. Poppies sowed themselves among the dahlias; the lawn waved with long grass; giant artichokes towered among roses; a fringed carnation flowered among the cabbages; while the gentle tapping of a weed at the window had become, on winters' nights, a drumming from sturdy trees and thorned briars which made the whole room green in summer.
What power could now prevent the fertility, the insensibility of nature?
Pensando di non far nulla di male, perché la famiglia non sarebbe tornata, non sarebbe tornata più, dicevano alcuni, e la casa forse sarebbe stata venduta per S. Michele, la signora McNab si chinò a cogliere un mazzo di fiori da portare a casa. Li mise sul tavolo mentre spolverava. Le piacevano i fiori. Era un peccato lasciarli sfiorire. Ammettendo che la casa venisse venduta (si mise davanti allo specchio con le mani sui fianchi) c’erano un sacco di lavori da fare, un sacco davvero. Tutti quegli anni senza che ci entrasse anima viva. I libri e le altre cose s’erano ammuffiti perché – un po’ per via della guerra e un po’ perché era difficile trovare persone che venissero ad aiutare – la casa non era stata pulita come lei avrebbe voluto. Rimetterla in sesto adesso era superiore alle forze di una persona sola. Lei era troppo vecchia. Le gambe le facevano male. tutti quei libri bisognava stenderli al sole, sull’erba; nell’ingresso l’intonaco era venuto via; la grondaia sopra la finestra dello studio si era intasata e l’acqua filtrava dentro; il tappeto era tutto rovinato. Però sarebbero dovuti venire loro; avrebbero dovuto mandare qualcuno a vedere. Perché negli armadi c’erano vestiti; in tutte le camere avevano lasciato vestiti. Che cosa doveva farne? Erano pieni di tarme – quelli della signora Ramsay. Povera signora! Non ne aveva più bisogno ormai. Era morta, si diceva; anni prima, a Londra […].
La casa venne abbandonata; non ci andò più nessuno. Fu abbandonata come una conchiglia su una duna di sabbia a riempirsi di granelli di sale, ora che la vita l’aveva abbandonata. La lunga notte sembrava essersi insediata; i soffi leggeri, che mordevano i venti appiccicosi, che frugavano, sembravano aver trionfato. La pentola s’era arrugginita e la stuoia disfatta. I rospi s’erano fatti strada all’interno. Pigro, senza scopo, lo scialle aveva oscillato avanti e indietro, dondolante. Un cardo era cresciuto tra le mattonelle della dispensa. Le rondini avevano fatto il nido in salotto; il pavimento era cosparso di paglia; l’intonaco cadeva a palate; le travi erano rimaste nude; i topi si portavano via questo e quello per rosicchiarlo dietro il battiscopa. Farfalle di madreperla rompevano la crisalide e andavano a morire infrangendosi sui vetri. I papaveri crescevano spontanei tra le dalie; i prati ondeggiavano di erba alta; carciofi giganti torreggiavano tra le rose; un giardino screziato fioriva tra i cavoli; mentre il battito gentile di un’erbaccia alla finestra era divenuto, nelle sere d’inverno, un tambureggiare di rami robusti e arbusti spinosi che in estate riempivano la stanza di verde.
Quale potere era in grado di impedire la fertilità, l’insensibilità della natura?
Virginia Woolf (1992 [1927]), To The Lighthouse, in Ead., Collected Novels, ed. by Stella McNichol, London, MacMillan, 280-282. Trad. it. Luciana Bianciardi (1995), Gita al faro, Milano, Rizzoli, 177 e 180.
C’était alors la même construction blanche, tout en colonnades et en fenêtres, de ce goût français qui prévault au siècle de Catherine. Mais il faut vous rappeller que cette vieille maison était beaucoup délabrér qu’aujourd’hui , puisqu’elle n’a été réparée que grâce à vous, à l’époque de notre mariage. Il ne vous est pas difficile de l’imaginer alors : souvenez-vous de l’état où elle se trouvait quand vous y vîntes pour la première fois. Sûrement, on ne l’avait pas élevée pour y vivre une vie monotone ; je suppose qu’elle avait été bâtie pour y donner des fêtes (au temps où l’on donnait de fêtes) per la fantaisie d’un aïeul qui voulait montrer du faste. Toutes les maisons du XVIIIe siècle son ainsi : il semble qu’elles soient construites pour la réception des hôtes, et nous n’y sommes jamais que de visiteurs mal à l’aise. Nous avions beau faire: celle-ci était toujours trop grande pour nous et il y faisait toujours froid. Il me semblait aussi qu’elle n’était pas solide, et certes, la blancheur de pareilles maisons, si désolée sous la neige, fait penser à de la fragilité. On comprend bien qu’elles on été conçues pour des pays beaucoup plus tièdes, et par de gens qui prennent plus facilement la vie. Mais je sais maintenant que cette construction d’apparence légère, qu’on dirait prévue pour l’espace d’un été, durera infiniment plus longtemps que nous, et peut-être que notre famille. Il se peut qu’elle aille un jour à des étrangers ; cela lui serait indifférent, car les maisons vivent d’une vie particulière, à laquelle notre vie importe peu, et que nous ne comprenons pas.
Era, allora, la stessa costruzione bianca, tutta colonnati e finestre, di quel gusto francese che prevalse nel secolo di Caterina. Ma non dimenticare che quella vecchia casa era in condizioni assai peggiori di oggi, poiché è stata riparata solo grazie a te, all’epoca delle nostre nozze. Non ti sarà difficile immaginarla allora: cerca di ricordare lo stato in cui si trovava quando c venisti la prima volta. Non era certo stata costruita in previsione di una vita monotona; immagino che l’avessero fatta per darvi delle veste (al tempo in cui si davano feste) grazie al capriccio di un avo in vena di fastosità. Tutte le case del diciottesimo secolo sono così: sembrano costruite al solo scopo di ricevere gli ospiti, e in esse noi riusciamo a essere soltanto dei visitatori a disagio. Avevamo un bel darci da fare: la casa era sempre troppo grande per noi, e sempre fredda. Mi pareva anche non troppo solida: ché il biancore delle costruzioni del genere, così desolate sotto la neve, fa pensare alla fragilità. Si vede subito che sono state ideate per paesi più tiepidi e da gente capace di prendere più facilmente la vita. Ma ora so che quella costruzione in apparenza leggera, ideata – si direbbe – per lo spazio di un’estate, durerà infinitamente più di noi e forse della nostra famiglia. Può darsi che un giorno vada in mano ad estranei; ciò che sarebbe indifferente, perché le case vivono di una vita particolare, alla quale la nostra importa poco, e che noi non comprendiamo.
(Marguerite Yourcenar (1971 [1929]) Alexis: Ou, Le Traité Du Vain Combat, Paris, Gallimard, 27. Trad. it. di Maria Luisa Spaziani (1962), Alexis, o il trattato della lotta vana, Milano, Feltrinelli, 21.
La casa di Martine era una villetta a tre piani in Washington Square: col tetto di ardesia, la facciata coperta di edera, e il prezzo eccessivo di un oggetto di antiquariato. Vi si accedeva per una porticina a vetri, laccata di bianco e protetta da tendine di organza, poi per un corridoio saturo di Jolie Madame che Martine spruzzava ogni giorno come il DDT. Accanto alla soglia c’era un impianto di allarme che suonava tutte le volte che la porta si apriva: sicché la cameriera doveva subito sollevare il microfono ed avvertire la polizia pronta ad accorrere di non scomodarsi, era entrata la padrona di casa o un amico. Martine, sempre afflitta dal terrore di essere derubata o uccisa, aveva fatto installare quello strumento in complicità con un tale dell’FBI, ed esso era l’unico neo nell’esasperata sofistication di un luogo dove non esisteva nulla di sbagliato: né un posacenere, né una moquette, né il velluto color foglia morta che fasciava la ringhiera della scala interna.
Per quella scala si saliva al primo piano dov’erano la stanza da pranzo e il soggiorno, entrambi pieni di quadri ninnoli specchi che Martine aveva portato dall’Europa insieme alla sua svagata follia, poi al secondo piano la camera sua e quella dell’ex: occupata da Giovanna. Le camere erano separate da un budoir e guardavano su Washington Square: coi platani, le panchine, il busto di Garibaldi, la chiesa cattolica, i ragazzi in blue jeans, il vecchio bar frequentato dagli omosessuali, le indossatrici ammalate di cerebralismo, i beatniks, e con un nome francese, Monocle.
(Oriana Fallaci (1998 [1962]), Penelope alla guerra, Rizzoli, Milano, 96-97.
Si era d’autunno, e il villaggio che l’accolse giaceva fra campagne grigiastre, in cui gli alberi dalle foglie rosse mettevano macchie rade. Delle case color terra, coi tetti rossi o neri, certune erano basse a un sol piano, altre erano strette e lunghe, con finestre simili a feritoie. Dietro alcuni usci aperti si vedevano brillare i fuochi, e lungo le strade fangose passavano mandrie di buoi e cavalli montati da contadini verdastri. Verso il confine del villaggio correva un fiume gonfio di pioggia, color della creta, che per uno scoscendere improvviso del terreno si tramutava in un torrente e precipitava in un ribollire furioso di gorghi; sul fiume passava uno stretto ponte di ferro, dagli esili piloni, limitato all’ingresso da un arco ad angolo acuto. Non lontano sorgeva la casa di Elena.
Era modesta, di forma allungata, col tetto spiovente. Nell’orto cinto da una siepe, fra gli erbaggi, cresceva un solo albero dal fusto sottile, un ailanto, che per la sua straordinaria velocità del crescere è chiamato pure “albero del Paradiso”. La sua cima giungeva ormai al secondo piano della casa.
Questa era circondata in basso da un rozzo portico e una scala esterna sulla destra conduceva al secondo piano. Le stanze erano ampie e semivuote, così che i passi sul pavimento di mattoni avevano risonanze metalliche. Le pareti imbiancate a calce erano interrotte da nicchie, da usci e da alcove, e dalle strette finestre in alto entravano luci livide e sghembe. Ritta in punta di piedi, presso una finestra, Elena rimase fino a notte a rimirare l’abisso del torrente, le strade di fango sotto il passo dei cavalli e l’incupirsi del cielo.
Elsa Morante (1964 [1963]) Lo scialle andaluso,Milano, Club degli Editori, 30-31.
A valle, un monastero
sull’acque,
l’ultimo asilo
o il primo di una nuova
cerca,
un muro che abbacinando
sconfigge
e fende;
più avanti, una rete
di echi e di lontane
conche marine;
e aldilà, la nera
onice risplendente
di cristalli senz’ombra, l’antimondo
dove vivemmo.
Rina Sara Virgillito (1976), Monastero a Corfù, in Ead., I fiori del cardo, Milano, Scheiwiller, 49.
Era rimasto solo, nella dimora ormai deserta da tempo grande, dove conversava coi mobili vetusti e talvolta col ritratto d’una donna d’altre età, che, accogliendo tra le braccia il suo corpicino di bimbo, lo sorvegliava – gli occhi sgranati – dal fondo buio della camera. La luce rossastra d’una finta torcia illuminava le sue notti, nella sala del caminetto: che aveva perduto le mille lingue cui era avvezzo, covando soltanto fantasmi di fiamme e morte braci: “Amore, lo sai/ quanta parte lasciamo in antichi palazzi/ sommersi dal mare degli anni”...
Il suo capo s’era fatto di neve, e i corti capelli sopra le orecchie ricordavano il pelo di un tenero animale. Un incantesimo lo teneva avvinto a quel luogo, e poiché immensa la sua natura fame si aggirava furioso entro il perimetro delle mura, nella vana ricerca di un impossibile nutrimento. Al sorgere del sole si coricava nella bara, per levarsi, come si conviene, quando l’ultimo raggio fosse scomparso.
Aveva abituato il suo organismo a lunghi digiuni, o a cibarsi della linfa delle annose acacie nella corte, la cui dolcezza poteva rammentare il sapore del sangue [...].
Finché un giorno, o meglio una sera (nel cielo le estreme filacce arroventate di nubi), qualcuno porse orecchio ai suoi lamenti ch’erano divenuti ululati ferini; qualcuno che forse, in epoche immemorabili, gli aveva voluto bene e decise di alleviarne la terribile pena.
S’udì una bussata al portone, e nuovamente il silenzio. S’arrestò, il fiato sospeso, in ascolto. Ancora riecheggiarono colpi, più impazienti, pareva. Attraversò allora la corte, si avviò su per l’androne a volta, smisurato; tirò il chiavistello e socchiuse il battente.
La vampa sanguigna dei capelli fu la prima cosa a colpirlo, come un fausto presagio; solo dopo alcun tempo ne vide il volto, ed ebbe la compiuta sensazione di averlo già conosciuto, e che fosse suo da sempre
“Sono venuta” disse semplicemente [...].
La condusse al piano superiore, dove aveva la sua lestra (ché letto non potea dirsi), la fece distendere, e cominciò piano a passarle la lingua sul candido ventre, sui seni puntuti, agli angoli delle labbra digià un poco esangui. Si soffermava nei recessi odorosi del suo corpo, entro sé pregustando il tiepido succo mielato [...].
Ne contemplava il volto illividito, per un infinito volgere d’anni lo contemplò. E riaffiorò alla sua mente l’atto smarrito nel tempo, mentre lei, i bruni occhi sgranati, lo sorvegliava dal fondo buio della camera.
Idolina Landolfi,
Fame, in Ead.,
Parvenze, ed. numerata e fuori commercio con acqueforti di Antonio Petti e scritti di Mario Luzi e di Edoardo Sanguineti, Salerno, Nola.
He stepped out of the cab and walked to the corner, so that he could stand diagonally opposite the house.
It was as if a hush had fallen over the world. For the first time he heard the cicadas singing, the deep churning song rising all around him, which made the shadows themselves seem alive. And there came another sound he had forgotten completely, the shrill cry of birds.
Sounds like the woodland, he thought, as he gazed at the darkened and forlorn galleries, shrouded now in early darkness, not a single light flickering from behind the high narrow and numerous wooden blinds.
The sky was glazed and shining over the rooftop, soft and shot with violet and gold. It revealed starkly and beautifully the farthest end column of the high second gallery and, beneath the bracketed cornice, the bougainvillea vine tumbling down luxuriantly from the roof. Even in the gloom he could see the purple blossoms. And he could trace the old rose pattern in the iron railings. He could make out the capitals of the columns, the curious Italianate mixture of Doric for the side columns, Ionic for the lower ones set in ante, and Corinthian for those above.
He drew in his breath in a long mournful sigh. Again, he felt inexpressible happiness but it was mixed with sorrow, and he was not sure why. All the long years, he thought wearily, even in the midst of this joy. Memory had deceived in only one aspect, he reflected. The house was larger, far larger than he had remembered. All of these old places were larger; the very scale of everything here seemed for the moment almost unimaginable.
Yet there was a breathing, pulsing closeness to everything—the soft overgrown foliage behind the rusted iron fence blending in the darkness, and the singing of the cicadas, and the dense shadows beneath the oaks.
“Paradise,” he whispered. He gazed up at the tiny green ferns that covered the oak branches, and the tears came to his eyes. The memory of the visions was perilously close to him. It brushed him like dark wings. Yes, the house, Michael.
[…] Scese dal taxi e andò all’angolo, per fermarsi diagonalmente di fronte alla casa.
Uno strano silenzio era calato sul mondo. Per la prima volta sentì il canto delle cicale, un frinire insistente che saliva intorno a lui e faceva sembrare vive le ombre. Poi gli giunse un altro suono che aveva dimenticato completamente, il grido stridulo degli uccelli.
Sembravano i suoni d’un bosco, pensò guardando le gallerie buie e deserte, velate dall’oscurità, dove neppure una luce brillava dietro le numerose persiane di legno.
Il cielo satinato splendeva sopra il tetto, sfumato di viola e d’oro, e rivelava nitidamente la colonna più lontana della seconda galleria, e sotto il cornicione, la buganvillea che ricadeva lussureggiante dal tetto. Persino nella penombra riusciva a scorgere i fiori viola, a seguire il vecchio fregio di rose nella ringhiera di ferro. Distingueva i capitelli delle colonne, lo strano miscuglio italianeggiante di stile dorico per quelle laterali, ionico per quelle più basse, corinzio per quelle al piano di sopra.
Trasse un lungo sospiro addolorato. Si sentiva ancora indicibilmente felice, ma era una felicità mista all’angoscia, e non sapeva perché. Tutti quei lungi anni, pensò stancamente, anche in questa gioia. La memoria lo aveva ingannato da un solo punto di vista, si disse. La casa era più grande, molto più grande di quanto ricordasse. Tutti quei vecchi luoghi erano più grandi: tutto era su una scala per il momento quasi inimmaginabile.
Eppure sentiva una vicinanza palpitante a tutto: al fogliame lussureggiante dietro la recinzione di ferro arrugginito che si fondeva nell’oscurità, al canto delle cicale, alle ombre dense sotto le querce.
«Il paradiso» mormorò. Alzò lo sguardo verso le piccole felci verdi che coprivano i vecchi rami, e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Il ricordo delle visioni era pericolosamente vicino, lo sfiorava come un’ala tenebrosa. Sì, Michael, la casa.
Anne Rice (1990), The Witching Hour, Ny, Knopf, 207-208. Trad. it. di Roberta Rambelli (1995), L'ora delle streghe, Milano, Salani, 214-215.
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Visita al Methodist Hospital, complesso di tanti edifici con attrezzature d’avanguardia (è qui che opera Debakey, il noto cardiochirurgo).
Nel reparto dei prematuri non si entra al di là della linea rossa segnata sul pavimento, invalicabile. Molte infermiere e alcuni bambini sottovetro, piccolissimi, bianchi e neri. Ci portano a vedere due elicotteri in partenza da una terrazza dell’ospedale: motori accesi e eliche in movimento, mentre sale, rapida sorridente, l’equipe sanitaria (a bordo c’è tutto il necessario per le emergenze) […].
Nella cappella a vetri intensamente colorati officiano culti diversi e una targa è esposta, secondo l’uso, a perpetuo ricordo di chi ha pagato, bene in vista: fa parte di un sistema che incoraggia le donazioni.
L’edificio per gli studenti, aule didattiche biblioteche e sala ricreativa, non è molto diverso da quelli nuovi delle nostre Università, forse meno grandioso ma funzionale. Nella sala anatomica con numerosi tavoli autoptici continuamente usati da futuri medici, non ho il coraggio di assistere alla spiegazione su un cadavere giallo come la trippa, asciutto e rinsecchito. Esito mentre tutte le signore italiane si ritirano, tranne la più giovane, meglione jeans e aria spigliata, e restano, attentissime, le americane. Un odore mi ha preso alla gola, dolciastro, e ho paura di sentirmi male. Ma mi dispiace e (e un po’ me ne vergogno).
Donatella Contini (1996), Quaderni di viaggio, Cittadella, Amadeus, 41.
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Arrivo alla casa della mia infanzia una notte del 1944. Il biancore dei viottoli abbaglia, e ci sono le lucciole, nonostante la guerra. Riconosco tutto, ogni particolare, anche il terrore che emana ogni cosa, il silenzio assordante, le finestre oscurate con la carta. Tutto rivive dentro di me nello stesso tempo: i rastrellamenti, i paesi bruciati, gli allarmi, le bombe.
La grande casa tace, apparentemente. Nessuno passa sulla mulattiera; so che dentro ci sono malati, donne, bambini.
Apro il cancello, e poi la porta, piano, perché non so che cosa accadrà. L’ingresso è buio: faccio qualche passo in avanti, sull’impiantito che scricchiola.
Il silenzio è talmente gravido di presenze e minacce che sto quasi per retrocedere e fuggire, quando gli occhi mi segnalano una macchia chiara, nell’angolo più nascosto, vicino alla porta del sottoscala. E allora la intravedo. È una bimba di circa quattro anni, solida di aspetto, accovacciata in terra; mi guarda con acutezza ma anche con lo sguardo di chi è perso altro e non è disponibile che per quello. […] Mi avvicino quasi di slancio e mi metto in ginocchio accanto a lei. La bimba non si scosta ma contrae le labbra; mi trasmette una tensione quasi insostenibile. Come dirle di non aspettare più?
Carla Sanguineti (2007), Le nostre care memorie proibite,Roma, CISU, 72.
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La laicità è fatta di tante cose: è soprattutto una collocazione istituzionale (o forse sarebbe meglio dire una «non collocazione», una «dislocazione» rispetto alle strutture: un non volersi qualificare altro che come credenti, senza nulla di più, senza obblighi esterni, regole e gerarchie aggiuntive); ma è anche una situazione esistenziale, un clima, un linguaggio, uno stile di vita. Per permanere in questo stile ho dato la preferenza a una cascina più che a una sagrestia, un santuario, un edificio annesso a luoghi di culto. Non perciò una canonica, ma una casa: una casa dove abitano tutti. Il castello dove abitavo precedentemente l’avevo chiamato «eremo della santa Kenosis», con tanto di targa sul cancello. Questa cascina, che è molto più eremitica, è rimasta cascina, senza nomi sacrali, ma con il nome che già aveva, coniato e ripetuto per secoli, dagli abitanti del luogo. Le case, in campagna, tutte hanno un nome. Accanto c’è la «Nuova», la «Ramera», la «Vignolina». .. Questa mia è il «Molinasso»: proprio cosi, con la «esse», come usa in Piemonte. (Meno che mai mi verrebbe in mente di usare altri termini frateschi, quali «parlatorio», «refettorio», «cella»... Qui c’è la camera da pranzo e la camera da letto, indicate col lessico corrente). E non la chiamo «eremo» per non distinguerla, per non renderla speciale. Molinasso era e Molinasso è restata. Se mai è un eremo perché c’è dentro un’eremita; ma non è necessario attribuire né alla casa né a me un nome singolare. La gente sa che, nella cascina Molinasso, che era rimasta vuota per venti anni, adesso c’è una donna che vive sola. Qualcuno sa che è un’eremita, altri no; e anche quelli che lo sanno non è poi certo che ci capiscano molto. Nè io faccio grandi discorsi per spiegarlo.
Sulle prime, quando espressi l’intenzione di venirmici a stabilire, vi fu incredulità, stupore e un tentativo di dissuasione. Alla proprietaria della casa e alla gente del posto pareva impensabile e rischioso che una donna sola andasse a insediarsi in un luogo cosi isolato. Credo che mi ritenessero un po’ pazza o per lo meno strana e Singolare. Ormai ci hanno fatto l’abitudine; e anche se mi dicono che qui, da soli, non ci dormirebbero, cominciano a trovare normale che io ci dorma.
Certo una vecchia casa, con un solaio abitato da topi e da selvatici, è piena di scricchiolii e di rumori indefinibili. Spesso, di notte, sopra alla mia testa, sento trapestare, stridere, battere. So che sono animali – ratti, rapaci, donnole, faine... – e mi fanno compagnia. A volte sento altri rumori che non riesco a identificare.
La prima notte che mi trovai a dormirci da sola avevo paura di aver paura, perché, in tanto isolamento, se dovesse prendere un panico incontrollato, ci sarebbe da impazzrre. Per fortuna non l’ho avuto. Mi sono addormentata tranquilla e tranquilla mi sono risvegliata.
Il Molinasso ha la struttura tipica delle case coloniche locali. La facciata, che guarda a mezzogiorno, è percorsa da un ballatoio di legno, parzialmente coperto da una vite; e il suo tronco contorto, quando è chiuso il portone d’ingresso, serve da scala per i gatti che, da terra, possono salire al primo piano ed entrare dalla porta superiore, senza suonare la campana. (Purtroppo questa vite avrebbe fatto da scala anche a un tipo poco raccomandabile che, una notte, salì e mi puntò contro una pistola). Per fortuna c’è un piano superiore perché il terreno e‘ umidissimo e, in certe stagioni, inabitabile. La cappella, che ho ricavata dall’antica cantina, se piove a lungo, si allaga; e debbo raggiunger l’eucarestia con gli stivali. (In quei casi naturalmente vado a pregare altrove. Il Signore lo lascio invece dove sta perché non penso soffra di reumatismo e, se anche l’acqua dovesse crescere, immagino che sappia nuotare, lui che bazzicava sul lago e frequentava barche e pescatori). In compenso è bellissima: a volte di nudo mattone e con un pozzo, in angolo, che è diventato il fonte (e un giorno fu battezzato un bimbo, prendendo l’acqua dal seno della terra). Accanto ho posto il cero, su un candelabro in ferro battuto, dono di un prete operaio. Nell’angolo di fronte c’è una splendida stufa in pietra viva monferrina. La mensa dell’altare è posta su un’antica bigoncia che, in antico, serviva per vendemmiare e pigiare l’uva.
Dalla finestra vedo i monti e, quando è alto il granoturco, una cortina di verde. Verde d’estate, grigio d’autunno, bianco d’inverno. E di notte, quando c’è solo la lucerna, prevale il rosso dei mattoni; e le Ombre nere, sui muri. Il silenzio è “profondo”; e cerco di immaginarmi, dal di fuori, questa cascina abbandonata che irradia una luce debolissima: questa finestra, come un piccolo punto nella notte, visto soltanto dalle stelle.
Adriana Zarri (2011), Un eremo non è un guscio di lumaca, Torino, Einaudi, 25-27.
Guardavo fuori in attesa di scorgere il cimitero memoriale per i morti di quell’orribile giorno. Mi resi conto che eravamo vicini perché due donne, coperte da un foulard, si alzarono e si misero sussurrare preghiere.
Dopo un attimo vidi un prato verde coperto di lapidi di legno verde. Erano i 600 corpi che avevano riesumato dalle fosse comuni, seicento corpi che pochi giorni prima avevano avuto una degna sepoltura. Mio padre e mio zio non erano tra loro! Non avevano nulla, se non un’inutile morte.
Era bello il riflesso del verde sul marmo del memoriale. Era pacifico tutto intorno, come se fosse solo natura, come se fosse solo normalità. Tremavo ma le lacrime non mi uscivano, non ce n’erano; vi era solo una tristezza inguaribile che non sapeva manifestarsi in nessun modo. Un senso di dolore, di irrimediabile mi schiacciava il respiro e sentivo che mai più avrei respirato liberamente. Ma non fu così […].
Arrivai nella via in cui sorgeva la casa della nonna. Mi guardai intorno e mi aspettai che il passato si materializzasse, che l’infanzia venisse a prendermi per farmi rivivere tutto ancora una volta: Ma la via era silenziosa e deserta. Le case malandate. Ovunque cresceva erba, tutto sembrava abbandonato. Nessuno uscì a chiedermi di giocare a nascondino. I nomi dei compagni di gioco mi tagliarono la memoria. Alcuni, lo so, sono all’estero; altri in Bosnia e vivono ancora da profughi. Altri no, non vivono più, le loro ossa giacciono da qualche parte nella terra nera.
Arrivai davanti al cancello della casa della nonna; arrugginito e traballante, spalancato perché ogni tentativo di muoverlo si sarebbe rivelato fatale. Il breve e stretto vicolo che portava alla casa finiva là dove giaceva statuario lo scheletro della vecchia Lada di mio zio. La casa della nonna era uno spettacolo devastante. Era gonfia d’acqua a causa dell’impianto idraulico rotto; come un’anguria matura, sembrava sul punto di esplodere. I muri si reggevano in piedi in qualche modo, ma non c’erano più né finestre né porte. Dentro non c’era più nulla: cresceva l’erba e gironzolavano i cani randagi [...]. Tornai a vedere ancora una volta la casa di mia nonna. La guardai con occhi diversi, vidi tutto ciò che un tempo c’era stato, sentii il caldo delle coperte, intravidi la scintilla del camino, udii le voci di una volta. Sorrisi perché tra quell’erbaccia crescevano le margherite, i miei fiori preferiti.
Elvira Mujčić (2007) Al di là del caos. Cosa resta dopo Sebrenica, Formigine, Infinito Edizioni, 91, 95, 100.
Non l’ho sognato?
Sei morto davvero?
O devo ancora
incontrarti?
Ho dimenticato gli alberi
che entravano dal lucernario,
e Chien,
le sere di vento impazziva dietro l’ombra delle foglie.
Apro l’acqua,
la ascolto come se parlasse,
non parla,
potrei stare lì notti e notti.
Prendere in mano la Leica,
guardare nell’obiettivo.
Cosa cambierebbe?
Nulla.
Faccio la spesa,
alle 11 torno,
ordino i cartoni di latte nel frigo,
poi li guardo,
da quello più alto a quello più basso,
sui ripiani illuminati,
rifaccio i letti già fatti,
tolgo una polvere inesistente.
Poi
mi seggo e aspetto.
Era questa la stanza?
Questo l’Avon?
Questi i fiori?
Laura Fusco (2015), Leica, in Ead., La pesatrice di perle, prefazione Itala Vivan, nota critica Maurizio Cucchi, Ferrara, Kolibris, 12-13.