Chiaro e famoso mare,
sovra 'l cui nobil dosso
si posò 'l mio signor, mentre Amor volle;
rive onorate e care
(con sospir dir lo posso),
che '1 petto mio vedeste spesso molle;
soave lido e colie,
che con fiato amoroso
udisti le mie note,
d'ira e di sdegno vote,
colme d'ogni diletto e di riposo;
udite tutti intenti
il suon or degli acerbi miei lamenti.
e dico che dal giorno
che fece dipartita
l'idolo, ond'avean pace i miei sospiri,
tolti mi fùr d'attorno
tutti i ben d'està vita;
e restai preda eterna de' martiri :
e, perch'io pur m'adiri
e chiami Amor ingrato,
che m'involò si tosto
il ben ch'or sta discosto,
non per questo a pietade è mai tornato;
e tien l'usate tempre,
perch'io mi sfaccia e mi lamenti sempre.
Deh fosse men lontano
almen chi move il pianto,
e chi move le giuste mie querele!
che forse non invano
m'afìiigerei cotanto,
e chiamerei Amor empio e crudele,
ch’amaro assenzio e fele
dopo quel dolce cibo
mi fe’, lassa, gustare
in tempre aspre ed amare.
O duro tòsco, che ‘n amor delibo,
perché fai sì dogliosa
la mia vita, che fu già sì gioiosa?
Almen, poi che m’è lunge
il mio terrestre dio,
che sì lontano ancor m’apporta guai,
il duol che sì mi punge
non mandasse in oblio,
e l’udisse ei, per cui piansi e cantai:
non acerbi i miei lai,
men cruda la mia pena,
men fiero il mio tormento,
che giorno e notte sento,
fôra per la sua luce alma e serena;
e sariami ‘l dispetto
dolce sovra ogni dolce alto diletto.
S’egli è pur la mia stella,
e s’accorda il cielo,
ch’io moia per cagion così gradita,
venga Morte, e con ella
Amor, e questo velo
tolgan, ed esca fuor l’ama smarrita;
che, da suo albergo uscita,
volerà lieta in parte,
dove s’avrà mercede
de la sua viva fede,
fede d’esser cantata in mille carte.
Ma, lassa, a che non torna
chi le tenebre mie con gli occhi adorna?
Se tu fossi contenta,
canzon, come sei mesta,
n’andresti chiara in quella parte e ’n questa.
Gaspara Stampa (1994) Chiaro e famoso mare, in Ead, Rime, a cura di Maria Bellonci, Rizzoli, Milano, 122-124.
Anche nella Grotta Azzurra Carlo Delcroix volle essere condotto, e cantare.
Il grembo dell’isola senza radici, tormentato dalla millenaria passione delle acque, immerso in luci di magia, violato dalla curiosità di tutti i popoli in tutti i tempi, non aveva ancor conosciuto miracolo uguale.
Colui che entrava là dentro non era forse mai stato così sereno. Nel fondo della barchetta, la sua donna, aggrappata a lui, non per dargli, ma per riceverne forza, lo fissava con mistica adorazione.
La gran voce sgorgò, diede brividi alle acque, rimbalzò dalle volte, dagli anfratti incrostati di giade e di zaffiri.
La gran voce sgorgò, diede brividi alle acque, rimbalzò dalle volte, dagli anfratti incrostati di giade e di zaffiri. S’immillò nell’azzurro, divenne anch’essa una meraviglia azzurra. L’azzurro sembrò emanare dalla stessa vita e presenza di Carlo Delcroix, rispendere per virtù dell’Uomo.
«Fratelli, fratelli, venite a consacrarmi…»
La strofa di guerra s’ammorbidì, morì nella dolcezza della melodia verdiana:
«O fresche valli, o profumate rive,
o patria mia, mai più ti rivedrò !...»
– Son lagrime di luce?... – chiese ad un tratto, fra un canto e l’altro, Carlo Delcroix, udendo il grondar dell’acqua dal remo, che il buon marinaio Cimino, mutilato di guerra, manovrava con la destra strettamente bendata al polso.
Altre lagrime, oscure, nei nostri occhi.
Uscita che fu la barca al varco angusto nel libero mare, il Cantore tacque.
La sua voce era rimasta nella Grotta Azzurra.
Ad ascoltarla, religiosamente, andranno forse, lungo il corso del tempo, i figli dei figli: quando nell’isola delle sirene si sarà formato anche questo mito.
Ada Negri (1928), Con Carlo Delcroix, in Ead., Le Strade, Milano, Mondadori, 25-26.
As if the Sea should part
And show a further Sea –
And that – a further – and the Three
But a presumption be –
Of Periods of Seas –
Unvisited of Shores –
Themselves the Verge of Seas to be Eternity
– is Those –
Come se il mare si spartisse
mostrando un altro mare –
e questo – un altro – e tutti e tre
presagio appena fossero –
d’una serie di mari –
inviolati da spiagge –
per esser loro ai mari la riva –
questa è – l’eternità –
Emily Dickinson, 695, c. 1863, 1929, in Ead., The Complete Poems, edited by Thomas H. Johnson, Boston-Toronto, Little Brown and Company, 1976, 342. Trad. it. di Rina Sara Virgillito (2002), in Emily Dickinson, Poesie, Milano, Garzanti, 89.
The sun had not yet risen. The sea was indistinguishable from the sky, except that the sea was slightly creased as if a cloth had wrinkles in it. Gradually as the sky whitened a dark line lay on the horizon dividing the sea from the sky and the grey cloth became barred with thick strokes moving, one after another, beneath the surface, following each other, pursuing each other, perpetually.
As they neared the shore each bar rose, heaped itself, broke and swept a thin veil of white water across the sand. The wave paused, and then drew out again, sighing like a sleeper whose breath comes and goes unconsciously. Gradually the dark bar on the horizon became clear as if the sediment in an old wine-bottle had sunk and left the glass green. Behind it, too, the sky cleared as if the white sediment there had sunk, or as if the arm of a woman couched beneath the horizon had raised a lamp and flat bars of white, green and yellow spread across the sky like the blades of a fan. Then she raised her lamp higher and the air seemed to become fibrous and to tear away from the green surface flickering and flaming in red and yellow fibres like the smoky fire that roars from a bonfire. Gradually the fibres of the burning bonfire were fused into one haze, one incandescence which lifted the weight of the woollen grey sky on top of it and turned it to a million atoms of soft blue. The surface of the sea slowly became transparent and lay rippling and sparkling until the dark stripes were almost rubbed out. Slowly the arm that held the lamp raised it higher and then higher until a broad flame became visible; an arc of fire burnt on the rim of the horizon, and all round it the sea blazed gold.
Il sole non era ancora sorto. Non si distingueva il mare dal cielo, solo che il mare era appena increspato, quasi una stoffa aggrinzita. Mentre il cielo sbiancava a poco a poco, una linea cupa si stendeva lungo l’orizzonte a separare il mare dal cielo e sulla stoffa grigia si disegnavano, mobili, fitte strisce, l’una dopo l’altra, sotto la superficie, in una fuga perpetua, in un perpetuo inseguimento.
Nell’avvicinarsi alla riva ogni striscia s’impennava, s’accumulava, si frangeva infine, spazzando la sabbia con un sottile candido velo d’acqua. L’onda s’acquetava, poi si ritraeva, sospirando, come un dormiente il cui respiro va e viene, inconsapevolmente. A grado a grado la striscia cupa dell’orizzonte si schiariva come se in una vecchia bottiglia di vino il sedimento fosse precipitato, lasciando verde il vetro. Dietro a essa anche il cielo si schiariva, come se anche là fosse precipitato un bianco sedimento, o il braccio di una donna coricata sotto l’orizzonte avesse alzato un lume e strisce piatte, bianche e verdi e gialle, si aprissero nel cielo come stecche di un ventaglio. Poi la donna alzò ancor più il lume e l’aria parve diventar fibrosa e staccarsi a forza dalla superficie verde, vibrando e ardendo in fibre gialle e rosse, come la fiamma fumosa e ruggente di un falò. A grado a grado le fibre del fuoco gioioso si fusero tutte in un unico alone, in una sola incandescenza che sollevò alto il peso del grigio cielo lanoso e lo trasformò in una miriade di atomi di azzurro tenue. La superficie del mare diveniva sempre più trasparente e si stendeva tutta barbagli e increspature frementi; finché le strisce cupe non si cancellarono. Lentamente il braccio che teneva il lume lo alzò sempre, sempre più in alto, e infine apparve un’ampia fiamma; un arco di fuoco arse all’orlo dell’orizzonte, e il mare, tutto intorno, fu una vampa d’oro.
Virginia Woolf, (1992 [1931]), The Waves, in Ead., Collected Novels, ed. by Stella McNichol, London, MacMillan, 337. Trad. it. di Giulio De Angelis (1989), Le onde, Milano, Rizzoli, 9.
Dès qu'ils étaient en âge de comprendre, on apprenait aux enfants à se méfier de la terrible nuit paludéenne et des fauves. Pourtant les tigres avaient bien moins faim que les enfants et ils en mangeaient très peu. En effet ce dont mourraient les enfants dans la plaine marécageuse de Kam, cernée d'un côté par la mer de Chine - que la mère d'ailleurs s'obstinait à nommer Pacifique, "mer de Chine" ayant à ses yeux quelque chose de provincial, et parce que jeune, c'était l'océan Pacifique qu'elle avait rapporté ses rêves, et non à aucune des petites mers qui compliquent inutilement les choses - et murée vers l'est par la très longue chaîne qui longeait la côte depuis très haut dans le continent asiatique, suivant une courbe descendante jusqu'au golfe de Siam où elle se noyait et réapparaissait encore en une multitude d'îles de plus en plus petites, mais toutes pareillement gonflées de la même sombre forêt tropicale, ce dont ils mourraient, ce n'était pas des tigres, c'était de la faim, des maladies de la faim et des aventures de la faim.
Appena erano in età di capire, si insegnava loro ad aver paura della notte sulla palude e delle bestie feroci. Tuttavia le tigri avevano molto meno fame che i bambini, e ne mangiavano ben pochi. Difatti, ciò di cui morivano i bambini nella piana acquitrinosa di Kam, circondata da un lato dal mare di Cina – che la madre però si ostinava a chiamare Pacifico, un po’ perché “mare di Cina” le sembrava un tantino provinciale, e un po’ perché nei sogni della sua giovinezza era all’oceano Pacifico ch’ella aveva guardato e non a uno dei piccoli mari che complicano inutilmente le cose – e murata verso l’est da una lunghissima catena che venendo da molto in alto nel continente asiatico scendeva in curva lungo la costa fino al golfo del Siam, dove affondava per riapparire ancora in uno sciame di isolette sempre più piccole, ma tutte egualmente gonfie della medesima scura foresta tropicale, ciò di cui morivano non erano le tigri, era la fame, erano le malattie della fame e le avventure della fame.
Marguerite Duras (1950), Une barrage contre le Pacifique, Paris, Gallimard, 13. Trad. it. di Giulia Veronesi (1961), Una diga sul Pacifico, Torino, Einaudi, 17.
Fear
of drowning,
fear of being that alone,
kept me busy making a deal
as if I could buy
my way out of it
and it worked for two years
and all of July.
This August I began to dream of drowning. The dying
went on and on in water as white and clear
as the gin I drink each day at half-past five.
Going down for the last time, the last breath lying,
I grapple with eels like ropes — it's ether, it's queer
and then, at last, it's done. Now the scavengers arrive,
the hard crawlers who come to clean up the ocean floor.
And death, that old butcher, will bother me no more.
I
had never
had this dream before
except twice when my parents
clung to rafts
and sat together for death,
frozen
like lewd photographs.
Who listens to dreams? Only symbols for something —
like money for the analyst or your mother's wig,
the arm I almost lost in the washroom wringer,
following fear to its core, tugging the old string.
But real drowning is for someone else. It's too big
to put in your mouth on purpose, it puts hot stingers
in your tongue and vomit in your nose as your lungs break.
Tossed like a wet dog by that juggler, you die awake.
Fear,
a motor,
pumps me around and around
until I fade slowly
and the crowd laughs.
I fade out, an old bicycle rider
whose odds are measured
in actuary graphs.
This weekend the papers were black with the new highway
fatalities and in Boston the strangler found another victim
and we were all in Truro drinking beer and writing checks.
The others rode the surf, commanding rafts like sleighs.
I swam — but the tide came in like ten thousand orgasms.
I swam — but the waves were higher than horses' necks.
I was shut up in that closet, until, biting the door,
they dragged me out, dribbling urine on the gritty shore.
Breathe!
And you'll know . . .
an ant in a pot of chocolate,
it boils
and surrounds you.
There is no news in fear
but in the end it's fear
that drowns you.
September 1962
Paura
di annegare,
paura di essere così sola,
tienimi occupata facendo qualcosa
come se potessi comprare
la mia via di scampo:
ha funzionato per due anni,
e ha funzionato per tutto luglio.
Da agosto ho iniziato a sognare che annegavo. La morte
prendeva corpo sempre di più, in un'acqua così bianca e trasparente,
come il gin che bevevo alle cinque e mezza.
Vado giù per l’ultima volta, l’ultimo dei miei respiri è bugiardo,
lotto con le anguille che sono corde – è etere, è buffo
e poi, da ultimo, tutto è finito. E ora arrivano i pesci spazzini,
i leccapiedi del fondo dell’oceano. E la morte, questa vecchia macellaia,
smetterà di annoiarmi.
Io
Non avevo mai fatto
Un sogno così prima d’ora,
salvo due volte, con i miei genitori,
aggrappati alla zattera
seduti ad aspettare la morte,
inespressivi
come foto lascive.
Chi ascolta i sogni? Sono solo dei simboli –
come i soldi per l’analista o la parrucca di tua madre,
il braccio che ho quasi perso nello strizzatoio,
seguendo la paura fino al nucleo, a forza di strappare il vecchio filo.
Ma l’annegare, quello vero, non è per tutti. È un’impresa troppo grande,
perché tu possa pronunciarlo con le tue labbra, ti mette caldi pungiglioni
sulla lingua e il vomito nel naso, fino a quando i tuoi polmoni si spezzano.
Muori a occhi aperti, da sveglio,
come un cane gettato in aria da un giocoliere.
Paura,
un motore
mi pompa intorno,
finché non svanisco lentamente
e il pubblico ride.
Svanisco, un vecchio corridore,
quotato in un grafico da diagramma.
Questo fine settimana, i giornali erano pieni della cronaca nera:
gli incidenti in autostrada, la vittima dello strangolatore trovata a Boston,
e noi eravamo lì da Truro a bere birra e staccare assegni.
Gli altri facevano surf, come se fossero sulle slitte.
Nuotavo – ma la marea giunse come diecimila orgasmi.
Nuotavo – ma le onde erano più alte di un cavallo.
Fui zittita in questo ripostiglio, fino a che, mordendo la porta,
mi trascinarono fuori, sbavando urina sulla spiaggia sabbiosa.
Respira!
E lo saprai…
Una formica in un vaso di cioccolata
che bolle,
e ti accerchia.
Non deve sorprenderti la paura,
perché è alla fine che la paura
ti affoga.
Settembre 1962
Anne Sexton, Imitations of Drowning, in Ead., The Complete Poems, Forwarded by Maxine Kumin, Boston, Houghton Mifflin Company 1999, 171. Trad. it. di Diego Salvadori.
Color floods to the spot, dull purple.
The rest of the body is all washed out,
The color of pearl.
In a pit of rock
The sea sucks obsessively,
One hollow the whole sea's pivot.
The size of a fly,
The doom mark
Crawls down the wall.
The heart shuts,
The sea slides back,
The mirrors are sheeted.
4 February 1963
Il colore affluisce nel punto, viola opaco.
Il resto del corpo è slavato,
colore di perla.
In un pozzo di roccia
Il mare succhia ossessivo,
una cavità perno di tutto il mare.
Grande come una mosca,
il segno fatale
striscia giù per il muro.
Il cuore si chiude,
il mare rifluisce,
gli specchi sono velati.
4 febbraio 1963
Sylvia Plath, Contusion, in Ead., The Collected Poems, edited by Ted Hughes, New York, Harper & Row Publishers 1981, 271. Trad. it. di Anna Ravano (2012), Contusione, in Sylvia Plath, I capolavori di Sylvia Plath, Mondadori, Milano, 173.
Col respiro che sembra rassegnato
tenta una via d’uscita
insiste, prigioniero, a battere monotono
il muro lo scoglio la battigia.
Sornione ha baglio allarmanti
creste in vedetta un odore fresco e antico.
Le conquiste, i confini più arditi
raggiunti con tanto spreco di magnificenza
solo pochi metri per poche ore.
Qualche barca inghiottita, qualche corpo sommerso.
Un ago in un pagliaio.
La forza, tanta forza inutile burrasca.
Calmo, ma non persuaso,
ritorna ad allenarsi fiducioso
mentre paziente canta:
sirene in gara con l’incantesimo del suo destino.
Si allunga, si ritrae, pensa.
Dagli abissi alla superficie trema.
«Se attacco di sorpresa…»
Non smetto di sperare.
Letizia Fortini (1970), Il mare, in Ead., Pena la vita, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 9.
Nelle acque dell’Egeo, fra Sarno e Imbro, piantata su piloni da cui sbocciava, come una concrezione geometrica di madrepore e di coralli inventata da un creatore aberrante e stanco dell’usualità di tutte le altre sue creazioni, si levava una struttura di metalli inossidabili e di plastiche più resistenti e incorruttibili del marmo. Le alghe e gli animali marini che rendevano viscido di vita il fondo roccioso e le gole taglienti dei canaloni non vi si erano fissati, l’avevano lasciata intatta e aggressiva nei suoi volumi e nei spigoli freddi. Non somigliava alla reggia sottomarina di Nereo cos’ come la descrivano i poeti e i sacerdoti: ma Achille la riconobbe appena la scorse, da lontano, inserita nelle acque buie e nel fondo marino, eppure estranea e inconciliabile a tutto quello che la circondava.
Al di là della grande vetrata il mare che si spalancava attorno alla base sottomarina era una realtà, e permetteva un’esperienza diretta. Il mare non era soltanto una grande via d’acqua. Quella superficie mutevole e lucente non era la conclusione visibile d’un abisso, era l’inizio di un mondo inaspettato. La certezza che quel mondo verdeazzurro, aldilà delle pareti della fortezza sottomarina, era una sfera ecologica praticabile, annullava il peso claustrofobico del pensiero di essere rinchiusi in un guscio impenetrabile.
Roberta Rambelli (1980), Profilo lineare B, Bologna, Libra Edtrice, 104-105.
La veste della mia anima
è sciupata; e fa freddo.
Quando avrò la nuova
questa vecchia vorrei gettarla in mare;
in questo mare che nasconde
coralli e perle,
e i naufragi;
e rispecchia il cielo.
L’ho visto perfettamente immobile;
l’ho visto burrascoso; l’ho visto
rabbrividire come noi,
o ansimante; è la casa;
diventare uno con i ciottoli
nel fondale, lisciati dalle sue carezze
continue, che mette fuori sulla
spiaggia con una sua onda insieme
a conchiglie vuote. Ma io
non voglio che mi riporti
in terra ferma.
Mi sentirò inondare dal mondo marino;
i pesciolini verranno a pinzermi
per farmi destare; ed io, svogliata,
continuerò a dormire, come quando
mi svegliavano di mattina presto
per andar a scuola…
Margherita Dalmati, Tomba Marina, in Ead., Lettere agli amici fiorentini. Con i carteggi di Mario Luzi, Leone Traverso e Oreste Macrí, a cura di Sara Moran, Firenze University Press, 2017, p. 151. Poesia letta a Genova in occasione del centenario della morte di Eugenio Montale, riportata in Margherita Dalmati, Intervalli, musica e parola, in Montale, la musica e i musicisti: primo centenario della nascita di Eugenio Montale, Genova 1896-1996, a cura di Roberto Iovino e Stefano Verdino, Genova, Sagep, 1996, pp. 23-25.
È isola. L’abbracciano i due mari
e la percuote il canto di sirene
che inquietarono il viaggio al navigante insonne
e che ancora percorrono i fondali – da mare
a mare – con litanie e preghiere. Al fondo
tra madrepore e rami di corallo,
tra le braccia allargate dalle asturie,
pulsa un crogiolo vivo di memorie: relitti di altre vite
pronti a tornare allo stupore, al grido…
Figure bronzee emergono dal mare
da secoli di attesa. Incrostate dal tempo
ritornano incorrotte nella bellezza altera
a dirci di una storia che ancora ci appartiene.
È grande grembo il mare che fa corona all’isola
colorata in gennaio di mimose e accesa di ginestre
al solstizio d’estate. Qui conduce la rotta
che da Itaca spinge a nuove rive ed i lontani venti
che guidano da Hakepa ad altri approdi. È qui
la sosta dunque? Qui l’abbrivio
dalle erranze del cuore? Dopo fughe
e partenze da ogni mare, “senza fine né terra”,
arresa inerme al vento di libeccio
e alle arsure assolate? È qui la vita?
Quella vita che s’apre e si congeda
pronta a nutrire i semi ed i ritorni? Il ritorno
è segnato dalle tracce che viaggio a viaggio
il tempo ha consumato. Ora l’isola grida
il suo richiamo. Ascoltarla è follia. È consegnarsi
alla totale nudità del giorno, ché l’approdo è la resa.
Ma è felice follia che brucia il tempo
e per magia lo accende di altre lune.
Giusi Verbaro (2004), Prologo, in Ead., Isola, Catanzaro, Stamperia d’arte L’Alternativa, 19-20.
Il sole, basso sull’orizzonte, come un re tragico e glorioso trafiggeva l’aria con gli ultimi, più imperiosi raggi e tracciava sulla superficie del mare un sentiero scintillante di mille effimeri fiori di luce. Maria socchiuse lievemente gli occhi abbacinati e chinò il capo. In basso, intorno ai grossi massi ricoperti di limo e punteggiati di patelle, il colore verde cupo dell’acqua si faceva dorato. Più avanti, il fondo lasciava intravedere sassi di varia grandezza, gusci di cozze, alghe e minuscoli pesci che si muovevano a scatti, con guizzi improvvisi, dopo esser rimasti a lungo immobili in attesa di chissà cosa. Sentì l’animo aprirsi ad una grande pace.
Marisa Madieri (2007), Maria, Milano, Archinto, 66.
Misuravo dall’acqua del fondale
I contorni d’Ortigia
Quando la quaglia sguscia verso sud
E si distende oltre il forte Viglieri
Di fronte al promontorio
Di lago o mare isola o penisola
La terra gioca con le forme e si perde
In una naturale mutazione
Improvvisa come il tuo sorriso
La polla d’acqua d’Alfeo e D’Aretusa
Gorgoglia tra gli scogli
Rasi del porto grande.
Assaporare la dolce sorpresa
D’un sapore che sfuma nella conca
Salina come la fuga di due / amanti
Elena Salibra (2010), il martirio di ortigia, Lecce, Manni, 67.
Il volo azzurro di delfini alati
Sotto il Castel Sonnino
A inseguire maggianze in fuga
Da mostri marini e cormorani
Scivolano sull’acqua di superficie
E s’asciugano l’ali crocifissi sullo scoglio della riva.
Tra la superficie e il fondale
Correnti impazzite, frecce del tempo puntano in ogni
Direzione
E nelle praterie senza linfa del fondo
Muovono le chiome le posidonie
A inghiottire perle, coralli, tesori.
Maturano le attinie e i rossi pomodori di mare
Nelle serre di brigantini affondati,
sui ponti delle navi a remi
tra anfore di vino olive profumi
a lenire dolori terrestri
I morti per acqua sono spinti
Da fredde correnti
Fino a riemergere stranieri.
Nell’assenzio di rive improbabili
I capelli neri alghe fluttuanti in superficie.
Il nostro mondo è acqua
amara del sale dei continenti
passeggere intrusioni di terra su di una mobile scura superficie
di acqua che tutto racchiude
Kiki Franceschi (2016), Mare, in Ead., Non c’è tempo per il tempo, Firenze, Polistampa, 44-45.